NULLITA’ ACCORDO SOTTOSCRITTO IN SEDE SINDACALE PER DIFETTO DI RAPPRESENTATIVITA’. LICENZIAMENTO NULLO COMMINATO ALLA LAVORATRICE IN ASTENSIONE OBBLIGATORIA PER MATERNITA’.

NULLITA’ ACCORDO SOTTOSCRITTO IN SEDE SINDACALE PER DIFETTO DI RAPPRESENTATIVITA’. IMPUGNABILITA’ EX ART. 2113 C.C. . DOMANDA INCIDENTALE VOLTA AD ACCERTARE LA PROCEDIBILITA’ DELLA DOMANDA DI IMPUGNATIVA DI LICENZIAMENTO PROPOSTA CON RITO SOMMARIO. AMMISSIBILITA’ DELLA DOMANDA. NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO COMMINATO ALLA LAVORATRICE IN ASTENSIONE OBBLIGATORIA PER MATERNITA’.

L’accordo sindacale non può qualificarsi come transazione o conciliazione in sede sindacale, agli effetti della sua in impugnabilità ai sensi del combinato disposto artt. 410 e 411 e ss. c.pc. e 2113 c.c. ultimo comma, qualora difetti la rappresentatività rappresentante sindacale presente al quale la lavoratrice o il lavoratore, iscritta/o ad altra organizzazione sindacale, non ha mai conferito mandato. La presenza meramente formale del rappresentante sindacale senza una sua assistenza effettiva, che non spiega al lavoratore l’accordo e i suoi effetti, non consente a quest’ultimo di sapere a quale diritto rinuncia ed in che misura.

In difetto dei predetti requisiti il verbale sindacale è soggetto a termine decadenziale di cui all’art. 2113 c.c., ove qualificato come verbale di rinuncia e transazione.

L’accordo sindacale è nullo per tabulas quando dal testo si desume la chiara volontà della datrice di lavoro di violare una norma imperativa di legge, che nel caso specifico riguarda l’art. 2112 c.c.. Ne discende che tutte le pattuizioni contenute volte a violare la predetta norma, quale ad esempio l’accettazione da parte del lavoratore della risoluzione del rapporto di lavoro e la rinuncia di parte delle retribuzioni ancora non corrisposte dal datore di lavoro, sono affette da nullità ex art. 1418 c.c.

In ragione di quanto sopra, l’eccezione volta alla dichiarazione di nullità del verbale di accordo sindacale – trattandosi di un semplice verbale di rinuncia e transazione – può essere proposta come domanda incidentale volta ad accertare la procedibilità della domanda di impugnativa di licenziamento proposta con rito sommario, con la quale viene chiesta, in via principale, la declaratoria di inefficacia e di nullità del licenziamento intimato.

Con Ordinanza n. 16569/2016 del 27.04.2016 nel giudizio recante il n. 14696/2015 R.G., confermata con Sentenza n. 2057/2016 Il Tribunale di Palermo, sezione lavoro, in composizione monocratica nel giudizio n. 6247 R.G., riprova quanto già affermato dalla Giurisprudenza prevalente (cfr. sul punto anche Ordinanza n. 16570/2016 del 27.04.2016, confermata dalla Sentenza n. 2058/2016 resa dal tribunale di Palermo, sezione lavoro il 10.10.2016).

Nei detti provvedimenti viene affermato quanto segue:

l’Accordo sindacale in oggetto non può qualificarsi come transazione o conciliazione in sede sindacale, agli effetti della sua in impugnabilità, in difetto di effettiva rappresentatività del rappresentante sindacale presente in relazione alla ricorrente, iscritta ad altra associazione sindacale, come si desume dalla documentazione versata in atti; Che, peraltro, detto effetto non può prodursi anche in relazione al fatto che nel verbale alcun cenno viene fatta alla circostanza che il rappresentante sindacale abbia spiegato ai lavoratori l’accordo e i suoi effetti; che d’altra parte, l’assoluta inesistenza di qualsiasi attività svolta in seno al verbale dal rappresentante sindacale risulta dall’atto né viene contestata dalla parte convenuta in memoria di costituzione; che l’accordo sindacale in oggetto, inoltre è nullo per tabulas, poiché dal testo stesso si desume la chiara volontà di violare la norma imperativa dell’art. 2112 c.c. laddove si afferma che “la nuova compagine sociale ha chiesto espressamente, agli attuali soci, di rilevare le quote sociali a fronte di una “non continuità dei rapporti di lavoro e con l’azzeramento di ogni e qualsiasi pendenza economica, relativamente ai rapporti di lavoro cessati; che quindi tutte le pattuizioni contenute nell’accordo e finalizzate alla violazione della norma imperativa predetta, quali quella secondo cui la società convenuta “provvederà alla cessazione di tutti i rapporti di lavoro a far data dal 03 luglio 2015” e quella secondo cui i lavoratori dichiarano sin d’ora di accettare la risoluzione del rapporto di lavoro in relazione alla cessazione dell’attività lavorativa della società” .

Risulta quindi provato e del tutto evidente che ai lavoratori è stata richiesta la sottoscrizione dell’accordo in questione al fine di potere stipulare nuovi contratti di lavoro con la società e i nuovi titolari e di ricevere il pagamento almeno parziale delle retribuzioni, ciò non è avvenuto per la ricorrente, le cui ultime retribuzioni erano peraltro state almeno in parte corrisposte dall’INPS al datore di lavoro, sotto forma di indennità di maternità

Ed inoltre

Attractive pregnant woman on the phoneIl licenziamento comminato ad una lavoratrice che si trovava in astensione obbligatoria per maternità è nullo, poiché discriminatorio, ma anche perché contrario al divieto di legge di cui all’art. 54 del d.lgs n. 151/2001.

Con i detti provvedimenti viene, inoltre, affermato quanto segue:

Detta nullità come pure ritenuto dalla Corte di Cassazione, con Sentenza n. 6575/2016 della Sezione Lavoro, opera in modo oggettivo ed indipendentemente dai motivi in concreto addotti dal datore di lavoro: L’equivoco nasce dalla assimilazione del licenziamento discriminatorio al licenziamento ritorsivo, in relazione al quale la consolidata giurisprudenza di questa Corte ( ex plurims: Cass. n. 3986/2015 ; Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09) ha affermato non essere sufficiente che il licenziamento sia ingiustificato, essendo piuttosto necessario che il motivo pretesamente illecito sia stato l’unico determinante.

La assimilazione del licenziamento ritorsivo al licenziamento discriminatorio viene compiuta in alcune pronunzie di questa Corte (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 08/08/2011, n. 17087) allo scopo di estendere al licenziamento ritorsivo le tutele previste per il licenziamento discriminatorio.

La ricerca dell’intento illecito è tuttavia rilevante al solo fine di estendere l’area di protezione delineata da specifiche disposizioni di legge.

La nullità derivante dal divieto di discriminazione discende invece direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’articolo 1345 cc.

Sotto il primo profilo rilevano le previsioni della legge n. 604 del 1966, art. 4, della legge n. 300 del 1970, art. 15, della legge. n. 108 del 1990, art. 3.

In particolare, l’articolo 3 della legge 308/90 (ndr articolo 3 della legge 108/90) dispone che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie – ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300- è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta con ciò evidenziando, da un lato, una netta distinzione della discriminazione dell’area dei motivi, dall’altro, la idoneità della condotta discriminatoria a determinare di per sé solo la nullità del licenziamento.

Negli stessi sensi rileva la previsione, già contenuta nell’art. 4 L. 125/1991 (ed oggi nell’art. 28 D.L.vo 150/2011) secondo cui il lavoratore che esercita la azione a tutela della discriminazione può limitarsi a fornire elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico (relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti) – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori, spettando in tal caso al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione.

La discriminazione- diversamente dal motivo illecito- opera obiettivamente -ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.

Sotto il profilo del diritto europeo, poi, la discriminazione diretta fondata sul sesso è di per sé vietata. La direttiva 76/207 – e successive modifiche – opera una distinzione tra le discriminazioni direttamente fondate sul sesso e quelle definite «indirette»; unicamente le disposizioni, i criteri o le prassi che possono costituire discriminazioni indirette possono, in forza del suo art. 2, n. 2, secondo trattino, evitare la qualifica di discriminazione, a condizione che siano «giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il [loro] conseguimento siano appropriati e necessari». Una siffatta possibilità non è invece prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, al sensi dell’art. 2, n. 2, primo trattino, di tale direttiva ( in termini: Corte giustizia UE, sez. Il, 18/11/2010, procedimento C-356/09). Pertanto la normativa nazionale ove interpretata nel senso di consentire una discriminazione diretta fondata sul sesso per la concorrenza di un’ altra finalità, pur legittima ( nella specie il dedotto motivo economico) sarebbe contraria alla direttiva”.

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