Violazione della distanza tra costruzioni
Violazione della distanza tra costruzioni: oltre alla messa in pristino, il diritto al risarcimento del danno.
Una questione di particolare complessità e interesse nell’ambito della tutela della proprietà individuale attiene alle conseguenze pratiche derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni normative in materia di distanze tra costruzioni.
Principio indiscutibile, da sempre confermato dalla Suprema Corte di Cassazione e dai Giudici di merito è che una volta fornita la prova in giudizio della violazione delle distanze legali, il soggetto trasgressore sia tenuto alla messa in pristino dei luoghi, attraverso la demolizione del manufatto illegittimo ovvero attraverso il risarcimento per equivalente.
Più problematico e privo di unanimità di vedute è stabilire in quali termini oltre alla tutela ripristinatoria, spetti al soggetto leso anche il diritto al risarcimento del danno e, in particolare, se tale diritto sia subordinato al pieno assolvimento dell’onere della prova.
In altri termini, posto che la violazione di distanze cagioni una lesione più o meno vasta al diritto di proprietà, bisogna chiedersi se tale lesione deve essere dimostrata attraverso una serie di elementi istruttori, ovvero deve ritenersi insita nella mera violazione.
Per rispondere compiutamente al quesito occorre innanzitutto ripercorrere brevemente la disciplina vigente in materia di violazione della distanza tra costruzioni, contenuta nell’art. 873 c.c., a norma del quale: “ le costruzioni su fondi finitimi, se non unite o aderenti devono essere tenute a distanza non inferiore a tre metri”; La stessa disposizione precisa che: “Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.
Dunque, l’articolo citato stabilisce:
– che le costruzioni devono osservare una distanza di tre metri o superiore se prevista da disposizioni contenute in regolamenti locali;
– che non occorre osservare la distanza prescritta in caso di costruzioni unite o aderenti.
In caso di violazione delle disposizioni sopra riportate, per orientamento consolidato e rispondente a basilare logica giuridica, chi ha costruito per primo è il soggetto qualificabile come parte lesa e può agire in giudizio per richiedere al trasgressore il rispetto delle distanze con la consequenziale rimozione della costruzione realizzata in spregio alla legge ovvero in alternativa con la condanna al risarcimento per equivalente.
Oltre a tale forma di tutela, la giurisprudenza ha da sempre riconosciuto, senza alcun contrasto, il diritto al risarcimento del danno cagionato dalla violazione delle distanze, e ciò in applicazione dell’art. 2043 c.c. a norma del quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Contrasti invece vi sono stati in merito alle condizioni che devono ricorrere per riconoscere nelle fattispecie concrete il suddetto risarcimento.
In particolare, come sopra preannunciato, bisogna comprendere se il soggetto che si presume leso, per ottenere il risarcimento del danno da violazione delle distanze, debba limitarsi a dimostrare l’avvenuta violazione ovvero debba fornire ulteriori elementi che dimostrino che oltre alla rimozione della lesione, occorre risarcire i danni che tale lesione ha cagionato.
Le conseguenze dell’adesione all’una o all’altra impostazione sono del tutto evidenti: nel primo caso basterà provare l’avvenuta violazione dell’art. 873 c.c. e dei regolamenti locali per ottenere la condanna di controparte al risarcimento dei danni – oltre che alla messa in pristino in forma specifica o per equivalente; nella seconda ipotesi, il soggetto leso dovrà dimostrare, oltre alla violazione delle distanze legali, la lesione concretamente subita e ciò attraverso la piena prova del danno.
In passato la Suprema Corte di Cassazione ha dato risposte altalenanti alla problematica in esame, negando in alcuni casi la tutela risarcitoria accessoria in assenza di elementi di prova (cfr: Cass. n. (Cass. n. 20608/2009); riconoscendola in altri (cfr: Cass n. (Cass. n. 25475/2010).
Con una recente pronuncia la Suprema Corte di Cassazione sembra avere consolidato la propria posizione, ponendo fine ai dubbi sorti in argomento.
Il caso di specie posto all’attenzione dei Giudici di legittimità, trae spunto dalla domanda con cui si chiedeva l’accertamento della violazione della normativa urbanistica locale in tema di distanza tra edifici e conseguente condanna alla riduzione in pristino e al risarcimento dei danni subiti.
Tanto in primo grado quanto in appello, i Giudici di merito accertavano la violazione della normativa di settore e accoglievano la domanda di riduzione in pristino, rigettando tuttavia la richiesta di condanna al risarcimento dei danni subiti, sul presupposto che gli attori non avevano fornito la prova del danno in concreto.
Contro la sentenza pronunciata in Appello, viene proposto ricorso per Cassazione, nonché ricorso incidentale, censurando il contrasto con l’ultimo orientamento di legittimità sopra richiamato secondo cui il danno conseguente alla violazione delle norme in tema di distanze tra costruzioni sia un danno in re ipsa.
In accoglimento al ricorso incidentale, la Suprema Corte fornisce questa risposta:
“In tema di violazione della distanza tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una limitazione temporanea del valore della medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria” (Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 2848/16; depositata il 12 febbraio).