Utero in affitto

Utero in affitto. Profili penalistici: la recente sentenza della Cassazione Penale, (Sez. V,  n. 13525/2016); un importante tassello nella controversa giurisprudenza in tema di legge 40/2004.

Non sussiste il reato di c.d. maternità surrogata o utero in affitto, di cui all’art. 12, comma 6, l. 40/2004, se la predetta pratica è avvenuta in uno Stato dove è lecita. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione alla luce della recente sentenza n.13525/2016 emessa dalla V Sezione penale.

Recentemente ha riscosso forte eco mediatico il dibattito morale e politico inerente il tema del c.d. “utero in affitto”. Con tale espressione si definisce la pratica della “maternità surrogata”, o più semplicemente “gestazione per altri”; principalmente essa consiste nell’impianto di un embrione in una donna che si impegna a portare un figlio in grembo e a consegnarlo dopo la nascita alla coppia committente.

Se tale tipo di maternità è consentita in alcuni paesi (come gli Usa e in Ucraina), essa è esplicitamente vietata in Italia, Francia, Germania, Spagna e Finlandia.
In Italia tale pratica trova il divieto nella Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (meglio nota come “legge 40”) avente ad oggetto norme in materia di procreazione medicalmente assistita.
In particolare l’art. 12 della citata norma stabilisce al comma 6 che: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila a un milione di euro”.

Prima di procedere all’analisi della pronuncia sopra richiamata, pare opportuno illustrare quanto accade in Italia, ove molte coppie decidono di far ricorso della pratica dell’utero in affitto recandosi in paesi esteri ove questa è consentita.
Avviene, infatti, che dopo tale scelta, diverse coppie rientrino dall’estero con un figlio concepito grazie a maternità surrogata. I neo genitori provvedono a recarsi dinanzi all’ufficiale di stato civile per la registrazione del concepito esibendo un certificato di nascita straniero, sul quale gli stessi coniugi sono indicati quali genitori del neonato.

Qualora quest’ultimi chiedano la trascrizione dell’atto di nascita estero, omettendo che la procreazione è avvenuta mediante tecnica dell’utero in affitto, questi potrebbero incorrere in responsabilità penale secondo quanto stabilito dall’art. 12, comma 6, della legge 40.

In relazione a tali casi, negli anni si è assistito allo sviluppo di ad una linea giurisprudenziale varia e contrastante. Tale materia è stata oggetto di numerose pronunce, sia di giudici italiani che internazionali, comportando talvolta l’emissione di sentenze di condanna e, in altre circostanze, la pronuncia di sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere. Quest’ultimo filone di pronunce trova conferma in una recente pronuncia della Corte Suprema in tema di utero in affitto.

In particolare ci si riferisce alla suddetta sentenza n. 13525 depositata il 5 aprile 2016, emessa dalla Sez. V della Corte di Cassazione. Con tale sentenza si stabilisce che non commette reato la coppia italiana che fa ricorso all’utero in affitto in Ucraina, se nel paese tale pratica è lecita. I coniugi recatisi all’estero, infatti, non possono essere condannati per la violazione della “legge 40”, né per falso in atto pubblico e false dichiarazioni sulle generalità del neonato, se la coppia non attesta nulla, ma si limita a far redigere i documenti dai pubblici uffici di Kiev in conformità alla normativa vigente.

Pertanto, i genitori di un figlio nato all’estero con la surrogazione di maternità possono diventare genitori legittimi al ritorno in Italia, se la pratica viene effettuata in un paese che la consente.
Il caso in esame riguardava in particolare due cittadini italiani che – come attestato dalla madre naturale – erano divenuti genitori di un bambino nato in Ucraina per mezzo di procreazione assistita. La cittadina Ucraina aveva acconsentito che i due imputati italiani fossero registrati come genitori.

Sulla scorta di tali avvenimenti il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli presentava ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell’art. 12, comma 6, della L. n.40/2004, assumendo che gli imputati avessero consapevolmente taciuto al funzionario consolare dell’Ambasciata italiana di Kiev di avere fatto ricorso alla tecnica di procreazione della maternità surrogata.

Secondo la Cassazione deve ritenersi insussistente il reato contestato, giacché la coppia non aveva alcuna volontà di commettere l’illecito, avendo compiuto detta attività in un Paese dove tale pratica era perfettamente lecita.
Inoltre, deve ritenersi lecita la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita redatto dai pubblici ufficiali ucraini, che indica la coppia come genitori del bambino.
Ciò poiché ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 567 c.p., “è necessaria un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un quid pluris rispetto alla mera falsa dichiarazione e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza, in conseguenza dell’indicazione di un genitore diverso da quello naturale” (Sez. 6, n. 47136 del 17/09/2014, P, Rv. 260996).

La condotta penalmente rilevante deve dunque comportare un’alterazione destinata a riflettersi sulla formazione dell’atto di nascita (Sez. 6, n. 35806 del 05/05/2008, G., Rv. 241254).
Pertanto, secondo la Corte il reato di cui all’art. 567 c.p., non è configurabile in relazione alle false dichiarazioni incidenti sullo stato civile di una persona, rese quando l’atto di nascita è già formato.
Né può ravvisarsi la configurazione della condotta di cui all’art. 495, comma 3, n. 1 c.p., poiché ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 396 del 2000, le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani (e tale è il minore, in quanto figlio di padre italiano: art. 1, comma 1, lett. a) della I. n. 91 dei 1992) nati all’estero sono rese all’autorità consolare (comma 1) e devono essere effettuate secondo le norme stabilite dalla legge del luogo e dalle autorità locali competenti, qualora ciò sia previsto dalla stessa legge.

La Cassazione dunque, non ha rilevato alcuna falsificazione, giacché il certificato del neonato – cioè l’atto dello stato civile ucraino – è stato redatto alla stregua della legge locale

Lascia un commento