Il referendum e il potere del popolo
Referendum, beni comuni e politica energetica nazionale.
Ultime riflessioni in vista del referendum del 17 aprile.
Sembra solo un quesito tecnico, ma a leggerlo in un determinato contesto, offre una prospettiva differente per interrogarsi sulla visione che abbiamo del futuro della nostra Repubblica.
Il quesito, sostanzialmente, è il seguente:
Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane, anche se c’è ancora gas o petrolio?
Ma il contesto più adeguato, più significativo, per dare una prospettiva alla scelta che siamo chiamati a fare, qual è?
Se un contesto è determinante nella comprensione di una frase, di una domanda, molto di più lo è per determinare la nostra volontà rispetto a un quesito referendario, che, intendendo abrogare parte di una legge, ci rimanda ad altre complesse questioni, per le quali abbiamo deputato altri cittadini, nelle forme e nei limiti della Costituzione.
I politici che sono contrari a questo referendum, proprio per l’aspetto tecnico del quesito, invitano all’astensione; lo ritengono uno strumento non utile o addirittura pericoloso per affrontare la complessità delle questioni alle quali rimanda. La maggioranza della pubblicistica, sostanzialmente e in modo non sempre esplicito, fa sua questa valutazione, pertanto non sviscera le questioni che determinano il contesto del quesito referendario.
E proprio così il referendum diviene inutile o pericoloso: quando non c’è un’informazione approfondita, diffusa e puntuale, quando non c’è la partecipazione consapevole ed attiva dei cittadini. Cos’è infatti un referendum?
Il referendum è il principale strumento di democrazia diretta; è un istituto attraverso il quale il popolo partecipa in prima persona al processo decisionale. E’ stato disciplinato soltanto nel 1970, da una legge (la n. 352) che introdusse alcuni criteri restrittivi. Anzitutto è ammissibile se ci sono le firme di 500.000 cittadini, raccolte in tre mesi. In alternativa occorrono almeno cinque consigli regionali che presentano il quesito alla Corte Costituzionale.
Il referendum in questione è il primo della storia repubblicana ad esser stato presentato dalle Regioni.
Il 30 settembre del 2015, 10 regioni italiane (in seguito divenute nove), in sinergia con molte associazioni della società civile, avevano proposto sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. La Corte di Cassazione, alla luce delle modifiche effettuate dal governo a fine dicembre 2015 su quei temi, ne ha ritenuto ammissibile solo uno,in quanto gli altri sono stati ritenuti recepiti dalla legge di stabilità.
Su cosa votiamo il 17 aprile?
Vogliamo che siano revocate o mantenute le concessioni per l’estrazione di petrolio o gas naturale in mare – entro le 12 miglia dalla costa – che scadranno tra il 2017 e il 2027?
Si tratta di circa 20 concessioni che, in caso di vittoria del “Sì”, continueranno comunque a essere valide sino alla loro scadenza attuale. Il quesito non riguarda le concessioni oltre le 12 miglia marine.
Ma cos’è una concessione?
Le risorse del sottosuolo sono proprietà dello Stato, che però non si dedica direttamente ad attività estrattive, e quindi le affida “in concessione” ad aziende energetiche specializzate. La procedura è complessa: prima lo Stato rilascia “permessi di ricerca” che, in caso di ritrovamento di risorse sfruttabili, possono evolvere in “concessioni di coltivazione”. Sulla base di queste ultime, le aziende realizzano le infrastrutture necessarie alla produzione, tra cui le piattaforme e i pozzi.
Fino allo scorso anno la legge italiana prevedeva che le concessioni di coltivazione (ovvero di estrazione) di idrocarburi durassero 30 anni, prorogabili per ulteriori cinque o dieci anni. La Legge di Stabilità 2016 stabilisce che tali titoli non abbiano più scadenza e restino in vigore “fino a vita utile del giacimento”. La medesima legge stabilisce che per il futuro le società non potranno più richiedere nuove concessione entro le 12 miglia.
Siamo quindi chiamati a decidere qualcosa che è dello Stato, della Repubblica italiana, di tutti noi.
Lo Stato, è il caso di ricordarlo, in quanto comunità politica, è l’insieme di Popolo, Sovranità e Territorio. Quindi, attraverso il referendum del 17 aprile, il popolo sovrano, attraverso un istituto di democrazia diretta, è chiamato a a decidere su se stesso, proprio perché il territorio è parte integrante ed essenziale di una comunità politica.
Questo è il profilo politico essenziale del contesto che bisogna aver presente per misurarsi con il quesito referendario.
Perché ci deve essere una norma sul rinnovo automatico delle concessioni?
A prescindere che dall’eventuale scelta di puntare con più decisione sulle fonti rinnovabili, lo Stato avrebbe tutto l’interesse a che le concessioni siano rinegoziate alla loro scadenza, senza rinnovarle in automatico, in modo tale da ottenere, tenendo conto del contesto energetico, economico ed ambientale del momento, condizioni eventualmente più favorevoli.
Che senso ha vietare nuove concessioni e contemporaneamente rinunciare alla ridefinizione dell’interesse pubblico su quelli esistenti?
L’altra questione, quindi, per ricostruire il contesto del quesito del 17 aprile è: cosa sono le royalty? cosa è una franchigia?
Le royalty sono delle quote in denaro che le compagnie petrolifere versano ogni anno allo stato, alle regioni e ai comuni per lo sfruttamento delle risorse petrolifere.
Tale percentuale, come si può vedere dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, è pari al 7% per l’estrazione di gas e di olio a terra e del 4% per l’estrazione di olio in mare, a cui sommare una quota del 3% da destinare al fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi se la risorsa è estratta sulla terraferma o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare.
Se si pensa che in altri Paesi le royalty difficilmente scendono al di sotto del 30%, c’è tanto su cui interrogarsi.
La franchigia è una quota annua di gas e petrolio estratti da ogni giacimento sulla quale non si calcolano royalty.
Sempre dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico si evince che le franchigie sono pari a:
20.000 t di petrolio estratto a terra, 50.000 t di petrolio estratto in mare 25 Milioni di mc di gas estratto a terra, 80 Milioni di mc di gas estratto in mare.
Tutto ciò significa che se i titolari delle concessioni ogni anno e da ogni giacimento estraggono un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie, non versano nessuna royalty allo Stato. E naturalmente l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile. Ecco perché dando loro la possibilità di prorogare la durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti, la logica della norma pubblica favorisce la logica del profitto privato: estrarre entro le suddette soglie, per non versare nemmeno un euro di royalty, tanto la concessione si rinnova automaticamente, il tempo per sfruttare il giacimento non mancherà.
Vogliamo che possa accadere qualcosa del genere sul nostro territorio? Qual è l’utilità collettiva che possiamo contribuire a determinare?
Ricostruendo questo contesto, chi è per il Sì intende mettere in discussione alcuni interessi privati, in nome degli interessi pubblici e del territorio.
E cos’è esattamente “territorio”?
Come ricorda il Professor Maddalena, in un articolo integralmente proposto di recente, l’emergenza climatica mondiale, i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo italiani, consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come «ambiente», meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come «biosfera» , in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo e il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere e attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un «bene comune unitario», formato da «più beni comuni», in «appartenenza» comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo un’entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il «territorio», come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere non solo alla presente, ma anche alle future generazioni.”
I grandi media avrebbero potuto ricostruire il contesto del quesito in modo più efficace, approfondito e ricostruendo i contesti delle diverse ragioni che si sono confrontate. Questo è il nostro contributo.
Il 17 aprile, dunque, dovrai fare una scelta consapevole di fronte al seguente quesito:
Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?
Facendo nostro l’invito della giornalista Gabanelli: invitiamo tutti i cittadini a informarvi e andare a votare in modo consapevole, altrimenti si indebolisce uno strumento che consente ai cittadini di dire cosa vogliono e cosa no. Un popolo evoluto interpellato, risponde. Buon esercizio del diritto/dovere al volto a tutti.
Consulta per maggiori informazioni il precedente articolo sul tema.
(articolo di Vittorio Greco)