Pentiti: quando le loro accuse portano al carcere

Le dichiarazioni dei c.d. pentiti a fondamento dei provvedimenti restrittivi in carcere nella fase cautelare

Una delle prove cardine a fondamento dell’impostazione accusatoria nei confronti degli imputati per reati di mafia è spesso rappresentata dalle dichiarazioni dei pentiti. Come è noto, già nel corso delle indagini preliminari, per potere richiedere l’adozione di provvedimenti restrittivi, le emergenze investigative frutto delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia (c.d. pentiti) o comunque di chiamanti in correità, vanno vagliate sotto il duplice profilo dell’attendibilità soggettiva e oggettiva dei collaboranti.
Nell’ipotesi in cui gli indizi siano costituti anche da dichiarazioni accusatorie di correi, non può pertanto prescindersi dall’esaminare la credibilità soggettiva dei dichiaranti, da valutare secondo i noti canoni della spontaneità, costanza, coerenza, precisione del racconto, mancanza di interesse diretto all’accusa, assenza di contrasto con altre acquisizioni, mancanza di contraddizioni (eclatanti o difficilmente superabili). Quanto al profilo dell’attendibilità oggettiva della chiamata, trova applicazione l’art. 192 c.p.p. alla stregua del quale deve valutarsi la sussistenza di riscontri oggettivi tali da fare assumere alla chiamata il valore sostanziale di prova del fatto addebitato. Il legislatore non ha predeterminato le fonti o gli elementi probatori utilizzabili a tale scopo. Dunque, escluso che il riscontro di carattere oggettivo debba essere costituito da elementi che già in sé forniscano la prova autonoma del fatto (poiché altrimenti si verrebbe a negare “in radice” il valore probatorio di tali dichiarazioni, le quali invece sono strutturalmente assimilabili alla prova rappresentativa diretta), questo può consistere in fatti obiettivi ed elementi indiziari di qualsivoglia tipo e natura, purché essi, complessivamente considerati e valutati, risultino idonei ad avvalorare l’attendibilità dell’ipotesi accusatoria.
In proposito, la costante giurisprudenza della Suprema Corte ha riconosciuto che i riscontri estrinseci ben possono essere costituiti da altre dichiarazioni di imputati in procedimenti connessi (c.d. dichiarazioni incrociate), sempreché il Giudice abbia proceduto alla valutazione della loro credibilità intrinseca e controllato che siano state rese in modo indipendente, così da escludere che siano frutto di una concertazione o traggano origine da una stessa fonte di informazione . Nella sentenza del 30 maggio 2006, le Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire che i riscontri estrinseci, in materia cautelare, sono volti ad assicurare alla chiamata un elevato grado di affidabilità, così da superare l’alone di sospetto connaturato nella sua provenienza.
In questa prospettiva, è sufficiente una conferma ab extrinseco della credibilità della chiamata, considerata nel suo complesso, attraverso una serie di riscontri che per numero, precisione e coerenza siano idonei a confermare quantomeno le modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante, in modo da allontanare, a livello indiziario, il sospetto che costui possa aver mentito. Ne consegue che non è invece indispensabile che i riscontri riguardino in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l’assenza di questo ulteriore requisito – nell’ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui – non esclude di per sé anche per la naturale incompletezza delle indagini, l’attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco, sia – nei termini anzidetti – sotto quello estrinseco (SS.UU. n.36267/2006).
Concludendo, con riferimento all’attuale prassi giurisprudenziale, i criteri di valutazione della prova hanno pienamente recepito le indicazioni offerte dalla Corte di Cassazione e possono essere cosi sintetizzati:
A) riscontri oggettivi e reali, emersi dalle indagini di Polizia Giudiziaria relative all’episodio criminoso, in riferimento alla verità del fatto storico esaminato ed alla sua corrispondenza con le dichiarazioni dei collaboratori, per dedurne una prima conferma oggettiva della loro attendibilità.
B) la capacità dei riscontri sub A) di rivelare ex se collegamenti del fatto con il soggetto indagato;
C) la valenza probatoria delle “chiamate plurime o convergenti” (c.d. dichiarazioni incrociate), nella misura in cui determinano quella “convergenza del molteplice” che assurge a dignità di prova piena, addirittura idonee a sorreggere una pronuncia di condanna.
D) la particolare valenza probatoria, come riscontro ex se di natura privilegiata, del personale coinvolgimento del dichiarante nel medesimo fatto narrato, in qualità di protagonista, specie in relazione ad episodi criminosi altrimenti destinati a restare impuniti;
F) la frazionabilità della chiamata di correo, nel senso della limitazione della conferma (o della smentita) probatoria alle sole parti coinvolte senza estensione alle altre.

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