24 Mag irragionevole durata del processo
Indennizzo per irragionevole durata del processo alla luce delle recenti modifiche legislative e delle pronunce giurisrpudenziali.
“Giustizia ritardata è giustizia negata”: così un noto aforisma rimarcava già molto tempo fa il bisogno e la necessità di una giustizia celere.
Tale questione può considerarsi ancora attuale, è noto infatti come all’interno del nostro sistema giudiziario accade spesso che un processo si protragga per un tempo eccessivo, rischiando di compromettere l’efficacia della tutela giuridica adita dai cittadini.
Durante l’iter giudiziario che precede la sentenza, possono infatti aver luogo mutamenti giuridico/sociali, o relativi al soggetto leso, che vanificano i risultati processuali conseguiti.
Per tale considerazione già nel 1950 veniva concepito il principio di “ragionevole durata processuale”, sancito dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, che all’art. 6 afferma: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”.
Lo stesso principio è recepito in Italia a seguito della modifica dell’art. 111 della Cost. che, in piena armonia del dettato normativo della Convenzione sopracitata, così recita “…ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata…”
Nonostante ciò, accade ugualmente che i procedimenti pendenti dinanzi ai Tribunali italiani subiscano eccessivi rallentamenti, tali da compromettere il riconoscimento del diritto adito dalla parte lesa.
Al fine di tutelare i soggetti danneggiati dalla lentezza dei processi, il legislatore ha introdotto il diritto ad ottenere un risarcimento per coloro che subiscano danni (patrimoniali e non) a causa della violazione della “Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali”.
Ci si riferisce alla legge 24 marzo 2001, n.89 (c.d. legge Pinto) che all’art. 1 bis statuisce: “la parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848 , sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa”.
Soggetto legittimano alla richiesta dell’equa riparazione è, dunque, “colui che “ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione”.
Ciò in presenza di tre requisiti:
1. la non ragionevole durata del processo;
2. l’esistenza di un danno conseguente;
3. l’esistenza di un nesso causa-effetto fra durata del processo e danno cagionato.
In merito ai soggetti legittimati alla richiesta di equa riparazione per irragionevole durata del processo, è opportuno precisare che ha diritto all’indennizzo anche la parte rimasta contumace.
Come recentemente chiarito dalla Suprema Corte, “questa è parte nei cui confronti la decisione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti, e a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico” (Cass. Civ. sez. VI-2, 7.7.2015 n. 14072, conf. SS. UU., 14.1.2014, sent. n. 585)
Nell’accertare la violazione dei tempi ragionevoli di durata processuale, “il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”.
Secondo le modifiche introdotte nel 2012 dal legislatore (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) è previsto un limite massimo di durata triennale per il procedimento di primo grado, biennale per il giudizio d’appello e annuale per quello in Cassazione.
Il superamento di tali soglie temporali determina l’irragionevole durata del processo, l’applicazione del regime sanzionatorio e, dunque, il conseguente diritto all’equa riparazione.
Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni (art.2 comma 2-ter comma, aggiunto dal D.L. n. 83; v. anche Cass. civ. sez. VI, 6.11.2014, sent. n. 23745).
Il processo di esecuzione può invece durare al massimo tre anni mentre quello concorsuale sei.
Nel procedimento esecutivo è tuttora contestato il diritto ad un indennizzo per il debitore con pronunce giurisprudenziali contrastanti (v. Cass. n. 6459/12; e Cass. nn. 26267/13 e 17153/13). In tale ambito è stato ritenuto che il debitore in possesso dei beni, trae vantaggio dalla procedura, e dunque, non può vantare il diritto ad alcun indennizzo. Certamente è invece applicabile il diritto all’equa riparazione per i creditori, ed altresì per il debitore spossessato del bene, nonché del possesso, che secondo la giurisprudenza più larga, è parimenti danneggiato dal patema d’animo e dalla sofferenza quale parte processuale.
Con la legge 28 dicembre 2015, n. 208, (legge di stabilità 2016) sono state apportate rilevanti novità nella disciplina dell’indennizzo per irragionevole durata del processo.
In particolare, sono stati introdotti – a pena di inammissibilità della domanda di equa riparazione – alcuni “rimedi preventivi” (ex art. 1-ter) che dovranno essere necessariamente esperiti nel corso del processo, ed almeno sei mesi prima che si maturi il diritto all’indennizzo, ovvero prima del superamento del termine massimo di durata del processo.
I rimedi preventivi sono: l’aver introdotto il giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione, l’aver chiesto il passaggio dal rito ordinario a quello sommario, o l’aver proposto istanza per la decisione della causa a norma dell’art. 281 sexies c.p.c. a seguito di trattazione orale, anche qualora il giudizio sia di competenza del collegio o in fase d’appello. Analoghi oneri sono previsti anche per il processo penale e per il giudizio amministrativo e di cassazione
Oltre a quanto appena rappresentato, la legge di stabilità del 2016, amplia l’ipotesi di esclusione dell’indennizzo per responsabilità aggravata. Secondo il novellato art. 2, comma 2-quinques, non è riconosciuto alcun indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile.
Ebbene, osservato quanto prescritto dall’art. 1-ter della c.d. legge Pinto, la domanda di equa riparazione può essere proposta entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.
Il calcolo della durata del processo decorre dal deposito del ricorso introduttivo del giudizio o con la notificazione dell’atto di citazione (art.2-bis comma aggiunto dal D.L.83). Quanto al computo della durata del processo non può essere tenuto in considerazione il tempo in cui il processo è sospeso nonché il periodo intercorso tra il giorno in cui inizia la decorrenza del termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa.
Con la sentenza del 23 luglio 2015, n. 184 la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto all’equa riparazione anche per le indagini preliminari, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.
Tale pronuncia tiene in considerazione quanto già stabilito dalla giurisprudenza di Strasburgo la quale ha reiteratamente riconosciuto il diritto all’equa riparazione anche per la fase delle indagini preliminari.
Sul punto, la Corte Costituzionale afferma come “non vi è dubbio che la Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso reiterate pronunce abbia dedotto dall’art. 6 della CEDU la regola che impone, ai fini dell’indennizzo conseguente all’inosservanza del termine di ragionevole durata del processo penale, di tenere conto del periodo che segue la comunicazione ufficiale, proveniente dall’autorità competente, dell’accusa di avere commesso un reato”.
Sulla scorta di quanto affermato dalla Consulta, è opportuno precisare che la Corte di Strasburgo ha specificamente affermato che l’art. 6 della CEDU non prescrive di prendere considerazione l’intera fase delle indagini, se esse non hanno comportato il compimento di atti, da parte dell’autorità competente, che si siano ripercossi sulla sfera giuridica della persona.
Altra importante pronuncia da tenere in considerazione in merito al computo del tempo ai fini della ragionevole durata del processo è quella inerente all’azione civile introdotta nel processo penale.
Con riguardo a tale ambito la suprema Corte ha stabilito che: “In tema di ragionevole durata del processo, se viene proposta l’azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell’imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile introdotto per la liquidazione del danno non costituisce autonomo giudizio ai fini della ragionevole durata, ma i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria” (Cass. Civ., sez. I, sentenza 27.02.2007, n. 4476).
Natura del danno risarcibile.
Con la sentenza n. 4524 del 23.02.2010 la Suprema Corte ha qualificato come indennitaria la natura del diritto “all’equa riparazione” sancito dalla Legge Pinto.
La Corte ha, infatti, avuto modo di stabilire che il ritardo processuale deve considerarsi quale un evento di per sé lesivo dei diritti della persona, che obbliga ex lege ad un’equa riparazione. Diversamente, se il ritardo processuale fosse considerato alla stregua di un fatto illecito ex art. 2043 c.c., sorgerebbe in capo a chi lo contesta l’onere di provare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa a carico del soggetto agente. In tale orientamento la Corte predilige un percorso a tutela del cittadino. Infine, le somme che vengono liquidate a favore del ricorrente, essendo puro ristoro di un danno patito, non hanno natura di incremento della ricchezza e non devono perciò essere assoggettate ad imposte.
Tipologia di danno risarcibile.
I danni derivanti dall’eccessivo protrarsi del processo possono essere di natura patrimoniale e non patrimoniale.
Per ciò che concerne il danno patrimoniale, ovvero il danno di natura prettamente economica, questo dovrà essere attestato dalla parte che si assume lesa, fornendo la prova del nocumento patito, ed essendo risarcibili sono le conseguenze immediate e dirette del ritardo processuale.
Quanto, ai danni non patrimoniali la giurisprudenza della Suprema Corte a Sezioni Unite ha introdotto una deroga al principio generale secondo spetta a chi afferma un fatto di provarne la veridicità e la sussistenza. In tale specifico ambito normativo infatti, la Cassazione ha stabilito che “Il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto” (Cass. civ. sez. I, n. 402, 2009).
Vi è, dunque, un inversione dell’onere probatorio a carico dell’amministrazione convenuta.
Quantum danno risarcibile.
In termini prettamente economici, l’importo dell’indennizzo da liquidare è stato recentemente modificato dalla legge di stabilità del 2016, subendo una riduzione. Questo è oggi compreso tra un minimo di 400,00, ed un massimo di 800,00 euro per ogni anno, o frazione di anno, superiore a sei mesi del processo.
La misura dell’indennizzo non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal Giudice.
Durata del procedimento
Il procedimento sull’equa riparazione avviato dalla parte lesa non può infine eccedere la durata di tre anni. Nonostante quanto stabilito dalla legge Pinto all’art.2, comma 2-bis, la Consulta si è pronunciata in tal senso con la sentenza n.36 del 2016, dichiarando l’illegittimità dell’articolo appena richiamato.
La Corte costituzionale giunge a tale sentenza sulla scia della consolidata giurisprudenza europea che in armonia con l’interpretazione dell’art.6 CEDU, sancisce l’onere dello Stato di concludere il procedimento per la riparazione del danno per irragionevole durata del processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie; ciò anche in virtù della minor complessità del medesimo procedimento e della finalità dei predetti procedimenti che si sostanzia nel rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia.
Pertanto, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, il termine per concludere il procedimento ex legge Pinto è riferibile al termine adottato dalla Corte di Strasburgo, e cioè quello di due anni.
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