La prova nel giudizio abbreviato

INTEGRAZIONE PROBATORIA DI UFFICIO NEL GIUDIZIO ABBREVIATO

In sede di giudizio abbreviato, l’art. 441, comma 5, c.p.p. prevede il potere-dovere del Giudice, qualora ritenesse di non poter decidere allo stato degli atti, di assumere, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione.
Questa norma è stata inserita dalla l. 479 del 1999, ed ha inciso notevolmente sull’impianto istruttorio dei giudizi decisi ai sensi degli articoli 438 c.p.p. e s.s..
Infatti, il previgente sistema normativo si basava sul divieto di acquisizione di prove in udienza. Pertanto, il giudizio abbreviato si configurava come un mero giudizio allo stato degli atti. La novella del 1999, invece, avendo introdotto la facoltà per il giudice di disporre in qualsiasi momento l’integrazione probatoria ex officio, ha reso tale giudizio non più necessariamente un giudizio allo stato degli atti.
È agevole comprendere che, sin da subito, nelle aule giudiziarie, si è sentita l’esigenza di precisare i presupposti e i limiti del potere ufficioso di integrazione probatoria, al fine di evitare arbitri e faziosità.
Innanzitutto, dal dato letterale della norma de qua si evince che tale potere-dovere di supplemento istruttorio non è illimitato bensì subordinato alla oggettiva impossibilità di decidere allo stato degli atti e al parametro della necessità delle prove ai fini della definizione del giudizio abbreviato.
Il requisito della necessità richiesto dalla norma si spiega anche alla luce del principio di economia processuale che ispira il rito abbreviato, e ha un chiaro intento: evitare l’assunzione di elementi inutili. Inoltre, si deve ritenere che l’elemento probatorio da acquisire non possa essere semplicemente rilevante e pertinente ma debba apparire “decisivo” in modo da consentire al giudice di addivenire ad una pronuncia sul merito. In altri termini, il giudice deve disporre d’ufficio l’assunzione delle sole prove che rivestono fondamentale importanza ai fini dell’accertamento della verità processuale.
Tuttavia, il punctum dolens dell’istituto in esame concerne la questione se i poteri di integrazione probatoria ex officio esercitati dal giudice ai sensi dell’art. 441 c.p.p., comma 5, possano riguardare anche la ricostruzione storica del fatto e la sua attribuibilità all’imputato.
Bisogna ammettere che, spesso, la scelta del rito abbreviato non è motivata dalla sola prospettiva premiale offerta dal rito in caso di condanna, ma anche, se non soprattutto, dalla possibilità di conoscere preventivamente tutto il materiale probatorio su cui il giudice fonderà la decisione.
Questa possibilità per l’imputato, però, viene meno nel momento in cui si consente al giudice di acquisire d’ufficio nuovi elementi probatori che riguardano la ricostruzione storica del fatto o la sua riconducibilità all’imputato. In tal caso, il quadro probatorio si arricchisce di nuovi elementi, con il rischio che le nuove prove possano far propendere il giudice per una diversa ricostruzione del fatto, probabilmente, sfavorevole all’imputato.
Sul punto, la giurisprudenza non è unanime.
Secondo un primo orientamento della Corte di Cassazione, tale potere <<non è esercitabile con riguardo alla ricostruzione storica del fatto ed alla attribuzione di esso all’imputato>> ( Cass. II, sent. n. 5664 del 5.2.2013, Cass. III, sent. n. 33939 del 16.6.2010; ). Diversamente, infatti, il giudice verrebbe a sostituirsi al Pubblico Ministero nella ricerca degli elementi di prova “a carico” dell’imputato: con la conseguenza che sarebbe compromessa la stessa figura del giudice quale soggetto terzo ed imparziale, al quale è riconosciuto il dovere di accertamento inteso come verifica della verità processuale.
Ed ancora, la Suprema Corte ha argomentato che <<la scelta processuale della difesa di essere giudicata sulla scorta degli elementi raccolti dal pubblico ministero verrebbe vanificata e snaturata se il potere del giudice di integrare la prova fosse illimitato ed arrivasse al punto di poter sostituire l’organo giudicante a quello inquirente nella ricerca di elementi idonei a verificare se il soggetto tratto a giudizio sia effettivamente autore di un reato e se il fatto contestato integri gli estremi di un reato perseguibile>>.
Tuttavia, negli ultimi anni, la Giurisprudenza ha elaborato anche un altro orientamento, di segno opposto, che consente al giudice di poter esercitare i poteri di cui all’art. 441, comma 5 c.p.p., anche per l’assunzione di elementi probatori che concernono la ricostruzione storica del fatto, o della sua attribuibilità all’imputato.
Nella sentenza n. 48725 del 2014, la Suprema Corte ha affermato che, con il rito abbreviato, l’imputato rinunzia definitivamente al diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite o richieste come condizioni a cui subordinare il giudizio allo stato degli atti, ai sensi dell’art. 438 c.p.p., comma 5. Inoltre, ha chiarito che si tratta di poteri che possono essere esercitati in qualsiasi momento e che prescindono dalla volontà dell’imputato o del pubblico ministero, e vanno esercitati dal giudice quando emerga un’assoluta esigenza probatoria.
In altri termini, ad avviso di questo più recente indirizzo giurisprudenziale, la richiesta di rito abbreviato formulata dall’imputato comporta l’accettazione del giudizio “allo stato degli atti” e rappresenta il limite oltre il quale il quadro probatorio già esistente non è suscettibile di modificazioni, ad eccezione dell’ipotesi in cui il giudice ritenga di dover disporre l’assunzione di ulteriori elementi in virtù, per l’appunto, della norma de qua. Se così non fosse, verrebbe svuotato di contenuto il disposto di cui all’art. 441, comma 5 c.p.p., in quanto, se nel giudizio abbreviato gli elementi probatori dovessero rimanere sempre e comunque cristallizzati sulla base dell’attività di indagine svolta dal PM, non avrebbe alcuno spazio applicativo il principio di cui dell’art. 441, comma 5 del codice di rito.
Gli unici limiti a cui è soggetto tale potere sono costituiti dalla necessità, ai fini della decisione, degli elementi di prova di cui viene ordinata l’assunzione e dal divieto di esplorare itinerari probatori estranei allo stato degli atti formato dalle parti. E sotto questo aspetto, la prova può considerarsi necessaria, nel giudizio abbreviato, quando risulta indispensabile a supportare da un punto di vista logico-valutativo la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della “regiudicanda” (Cass. IV, sent. n.39492 del 18.6.2013).
Né vale sostenere, che il giudice che decide di integrare la prova rinunci alla sua posizione di terzietà, atteso che la prova ritenuta necessaria, come lo stesso art. 441, comma 5 c.p.p. chiarisce, serve ai fini della decisione e, dunque, dell’accertamento della verità. Inoltre, la nuova prova può risolversi tanto in favore quanto in danno dell’imputato e dunque, ricorrendone i presupposti, l’esercizio di tali poteri da parte del giudice non fa venir meno il ruolo di terzietà, né comprime il diritto di difesa dell’imputato.
Va chiarito, inoltre, che qualora il procedimento continui in secondo grado, il giudice di appello, se ritenesse di non poter decidere allo stato degli atti, potrà assumere nuove prove e prove sopravvenute, sia su richiesta di parte che d’ufficio. Invece, nell’ipotesi in cui sia la parte a richiedere la rinnovazione, la Cassazione ha chiarito che il mancato esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice non costituisce vizio deducibile mediante ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d) c.p.p. Infatti, secondo la Suprema Corte l’imputato che opta per la definizione del procedimento allo stato degli atti ha implicitamente rinunciato alla facoltà di richiedere una integrazione probatoria (Cass. 20262/2014).
In conclusione, il potere di integrazione probatoria ex officio attribuito al giudice dall’art. 441 c.p.p., comma 5, è preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all’esercizio della funzione giurisdizionale e risponde, pertanto, alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall’art. 507 c.p.p. in dibattimento (Sez. I, n. 24865 del 09/10/2012).
Ovverossia, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, si tratta di un potere necessario ad assicurare la funzione conoscitiva del processo, discendente dal principio di legalità, ed a scongiurare la incompatibilità del sistema con i principi costituzionali.

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