Stalking mediante Facebook

Stalking mediante Facebook.
I social network, armi a doppio taglio: da straordinari mezzi di diffusione della conoscenza e delle relazioni a strumenti attraverso i quali si consumano reati.

Oggigiorno utenti di qualsiasi età utilizzano i social network con estrema disinvoltura, per condividere foto personali e non, per raccontare episodi più o meno significativi della propria esistenza, per esprimere giudizi e su fatti pubblici e su fatti privati, o semplicemente per sfogarsi un po’.

L’invito alla prudenza, e alla condivisione ragionata, oserei dire cum grano salis, è però necessaria, dato che negli ultimi anni diversi reati sono stati commessi mediante l’uso dei social.
La pronuncia della Corte di Cassazione, di seguito riportata, riguarda un caso che rientra nella casistica di cui si è detto (del c.d. stalking mediante Facebook)

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito all’impugnazione di un’ordinanza cautelare emessa dal Tribunale di Catania nei confronti del ricorrente, avente ad oggetto la conferma della misura del divieto di avvicinamento alle persone offese.

Più nello specifico, il ricorrente subiva la predetta ordinanza per aver realizzato una vera e propria attività persecutoria, minacciando di morte, ingiuriando, denigrando anche attraverso facebook, oltre che seguendone gli spostamenti, i genitori dell’ex convivente, ai quali il Tribunale per i minorenni aveva assegnato due dei quattro figli minori della coppia.

Questi atti persecutori erano stati tali da ingenerare nelle persone offese timore per la propria incolumità, tanto che i coniugi evitavano di uscire di casa, per paura di incontrarlo.

Tra i motivi del ricorso della difesa dell’imputato, appare degno di nota quello secondo il quale i messaggi pubblicati su facebook, non possono integrare il reato di stalking (art. 612 bis c.p.), bensì quello eventualmente di diffamazione. Infatti, a detta della parte impugnante, ai fini dell’integrazione del reato di atti persecutori sarebbe necessario che il molestato o minacciato dagli “stati” pubblicati sul social dall’indagato, rientrasse nell’elenco degli amici virtuali di quest’ultimo.
Tale impostazione non ha però convinto la Suprema Corte, la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso.

La sentenza, tuttavia, è stata pretesto per ribadire alcuni principi generali che si applicano allorquando si discuta della configurabilità del reato di atti persecutori.

Com’è noto, il delitto in esame è un reato necessariamente abituale, che si caratterizza per una serie di comportamenti minacciosi o molesti (almeno un numero di due fatti di questo tipo), i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili, ovvero non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

Inoltre, è un reato abituale di evento. Esso si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità, che abbiano determinato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Pertanto, ciò che rileva è che la reiterazione nel tempo delle condotte sia in grado di determinare nella persona offesa, almeno uno degli eventi descritti dall’art. 612 bis c.p.

Nella sentenza, la Cassazione ricorda che <<il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno”, consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015)>>.

Quanto al profilo soggettivo, lo stalking è un reato abituale di evento assistito dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.

L’elemento soggettivo, tuttavia, non postula la preordinazione di tali condotte (elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa) potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015).

Ai fini della prova, la Cassazione ricorda che <<già in sè le dichiarazioni delle p.o. possono costituire prova della responsabilità dell’indagato, sempre che ne venga verificata l’attendibilità e nel caso di specie l’attendibilità delle p.o. è stata compiutamente considerata anche in relazione ai plurimi elementi di riscontro, quali ad esempio l’utilizzo di account intestati a soggetti di fantasia volti ad occultare la propria identità alle p.o., ovvero il contenuto delle relazioni delle assistenti sociali>>.

Infine, i giudici di legittimità hanno ritenuto non rilevante il motivo sollevato dal ricorrente, in base al quale i messaggi pubblicati su facebook integrerebbero al più il reato meno grave di diffamazione. Infatti, secondo la Corte, il reato di atti persecutori si caratterizza per la necessaria reiterazione delle condotte. Di conseguenza, il singolo episodio, che pur potendo in ipotesi integrare in sè un autonomo reato, va letto nell’ambito delle complessive attività persecutorie.

v. Corte di Cassazione, sez. V pen., n.21407/2015

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